26.2.07

GIU' IL SIPARIO.

HO PERSO LE PAROLE.
CHIEDO SCUSA.

18.2.07

DAL GIORNALE DI BRESCIA - Cultura e Spettacoli

SUCCESSO AL PALABRESCIA PER LO SPETTACOLO DELLA COMPAGNIA DI ROBERTO HERRERA

Tango argentino in chiave underground con premessa hip hop

La Compañia argentina de tango al PalabresciaC’è stato un tempo in cui il tango era grida e passi di gioia. Poi è diventato intenso, drammatico. In entrambi i casi, non ha mai smesso di danzare la bramosia di una nuova libertà, la lotta per superare l’inerzia del presente. L’uno e l’altro tango sono presenti nello spettacolo della Compañia Argentina de Tango Roberto Herrera, che ieri ha suggestionato un Palabrescia di via San Zeno, abbastanza affollato.Suggestionato, ma anche confuso: il doppio registro del tango appare senza soluzione di continuità, più come singole abili esibizioni, spezzate (o legate?) dalle interpretazioni dell’Hyperion Tango Quintet. Allegria e pathos si alternano, bilanciandosi, ma mescolando le carte di una storia che affonda le sue radici in quelle degli emigranti italiani, francesi, ungheresi che, nella seconda metà dell’Ottocento, seguirono un sogno di fortuna fino ai porti sudamericani. Come ogni storia di emigrazione viene disillusa. E il tango nasce come grido di disperazione e speranza.Roberto Herrera con Tamara Bisceglia e i suoi (Estanislao Herrera, Veronica Vidan, Oscar Mandagaran, Carla Georgina Ciccarino, Antonio Campostrini y Alejandra Viña, Marcela Guevara, Stefano Giudice) non indossano costumi da sala, ma jeans e maglie: fanno sfide su un tango che si sta ancora formando, prendendo a prestito dal tip tap, dalle figure dei balli rinascimentali, dall’habanera cubana e dalla milonga suonata da pianoforte, chitarra e flauto.I primi costumi arrivano nella clandestinità di night fumosi solo immaginati, nella scena fissa e nera del palco, quando il tango diventa espressione underground, attirando la disapprovazione delle autorità. Il tango sensuale e sanguigno, accorato dai suoni profondi del bandoneòn (strumento tipico del genere, qui suonato da Camilo Ferrero), quello sì che ha gli abiti della Parigi degli anni Trenta, in cui impazzava la moda dei Tango Cafè.Herrera senior sfoggia una tecnica impeccabile, ostacolata da una forma appesantita, e ai pezzi solisti con la splendida Tamara - tra cui spiccano la carnevalesca «Cumparsita» di Gerardo Matos Rodriguez e «Libertango» di Piazzolla -, alterna i duetti con la coppia Herrera junior-Vidan, in una sorta di passaggio di testimone, che trova i giovani affiatati ed espressivi come non sempre riescono ad essere le coppie veterane.
Ma ieri il tango è stato introdotto da un’altra danza nata per strada, l’hip hop, interpretata dai ragazzi bresciani della Piccola Compagnia, su coreografia di Simona Bazzoli.Forte del successo delle scorse settimane, il Palabrescia ha deciso di riproporre, in apertura di spettacolo, esibizioni di nostri concittadini. Stavolta portando anche la performance complessa e delicata, che non ha nulla di amatoriale, di Ester Marinoni e Fabio Crestale di Doppio Movimento, in «Terza persona singolare», pluripremiata coreografia di Valentina Benedetti, primo premio alla «Settimana Internazionale della Danza» di Spoleto.
Ilaria Dondi

16.2.07

Nani e Moscato

Ieri Sara mi ha scritto per chiedermi di raccontare un aneddoto su di lei. Lo faccio perché so che qualsiasi cosa io scriva lei non se la prende e se esagero è solo per colpa della mia fantasia. Sono convinto si farà due risate. Come penso le farete voi.

Queste sono le persone che mi giravano attorno qualche anno fa.

Anno 2002. Primavera.

Lezione di neuropatologia del sistema nervoso.
La prima parola che mi viene in mente è nausea.
Sara dice che è stanca e vuole uscire dall’aula.
L’accompagno volentieri. Infondo, non avevo intrapreso psicologia per seguire le lezioni di neuropatologia.
Entriamo in un baretto. Non ricordo il nome, è da troppo tempo che non vado a Parma. In ogni caso è un piccolo bar vicino alle aule di San Francesco.
Uno dei motivi per cui Sara mi stava simpatica è che era una che si concedeva senza problemi. E non se ne vergognava.
Che fosse mezza mattina, pomeriggio o tarda sera a Lei non importava.
Da quando il primo sorso di Moscato (diceva che il Moscato la rendeva sessualmente appetibile) bagnava le sue labbra al momento in cui si toglieva le mutande in genere passava un tempo brevissimo. Questo lo so perché me lo raccontava lei stessa. Facevamo una splendida accoppiata, io e Sara. Per motivi come è ovvio contrapposti.
Una volta mi raccontò di essersi iscritta a Medicina solamente perché riteneva fosse un buon campo di reclutamento e, quando scoppiai a ridere pensando a Lei impegnata a sedurre giovani aspiranti medici, mi disse: Guarda che è una cosa seria.
Aveva un’espressione estremamente decisa.
Dopo nemmeno un anno decise che gli uomini di quella facoltà non meritavano la sua attenzione. Passò quindi a Psicologia.
Eravamo in quel bar ormai da diversi minuti, Sara aveva già bevuto col solito piglio un paio di bicchieri di Moscato, quando dalla porta entrò un uomo. Un bel viso, ma giuro che non arrivava al metro e sessanta. Io non lo conoscevo, ma Lei sì. Non voleva parlargli, anzi, fece addirittura finta di non conoscerlo. Ovviamente lui l’aveva riconosciuta.
Ordinò un caffé e si avvicinò al nostro tavolo. Lui la salutò e Lei, con aria sorpresa disse: Prego?
Prego??!!
Ci conosciamo?
L’espressione del viso di lui era di smarrimento, Sara sbiancò e io arrossii.
Probabilmente mi hai confuso con un’altra persona.
Lui ci fissava sbalordito. Io stavo per scoppiare a ridere.
Davvero?
Continuarono così, con lei che si comportava da psicopatica. Ogni volta che lui la guardava lei faceva la faccia di quella che non capisce come mai la guardano. Continuò la sceneggiata fino a quando lui decise che era inutile andare oltre.
Si sedette vicino al bancone con aria incredula.
Fammi indovinare: siete stati a letto assieme.
Beh, una volta. Ci siamo visti solo una volta. All’Astrolabio
(nds - è una discoteca)
E ora?
E ora ho fatto una figura di merda. Ma ero ubriaca. E lui pure. Probabilmente si convincerà che ero solo una che assomigliava a quella che si era portato a casa.
L’uomo finì il caffé, pagò il conto e se ne andò scuotendo la testa e borbottando qualche parola.
Sara tirò un sospiro di sollievo.
Che dici?
Non dissi niente. Sorrisi e basta. In ogni caso nella settimana successiva ogni volta che incontravamo qualcuno sotto il metro e sessanta le lanciavo pungenti frecciatine.
Come eri caduta in basso… letteralmente.
E ridevamo.
Quella settimana Sara concluse che i nani, dal metro e sessanta in giù, vanno benissimo alle feste, nel periodo natalizio o nei giardini di casa, ma la cosa doveva finire lì. Assolutamente.

14.2.07

The Rules of Game

Quando una persona viene ricoverata per overdose, se la causa dell’overdose stessa non è chiara – e vi assicuro che raramente lo è – l’ospedale è obbligato legalmente a trattenere il paziente e a sottoporlo ad un esame psichiatrico. Anche contro la sua volontà.
L’esaminatore dispone di una lista di controllo prestabilita per determinare se l’esaminato è maniaco, depresso, bipolare (significa che è sia maniaco che depresso), paranoico o schizofrenico. Una lista di controllo altro non è che un labirinto di domande che richiedono risposte collegate in modo causale. Se l’esaminato ha un quoziente intellettivo sufficientemente alto e in quel momento una discreta lucidità, sarà per lui facile, estremamente facile, ingannare l’esaminatore e farla franca. E’ come un colloquio di lavoro: il vostro aspetto, il vostro comportamento e le vostre risposte si possono adattare oppure no alle caselle del test. E, così come succede in un colloquio di lavoro, non importa quasi mai che voi siate o meno qualificati per quel lavoro. Non importa. Il segreto è comportarsi come se niente fosse. Come se non ci fosse nessun motivo al mondo per cui l’esaminato non potrebbe nel giro di qualche ore ritrovarsi per strada con una cartella clinica pulita. È’ un po’ come mentire. E’ l’esaminato che deve per primo credere alla sua bugia; se lui ci crede, allora ci crederanno anche gli altri.
L’esaminatore ideale ha i capelli tagliati in modo banale, magari con un maglione colore pastello e un orologio non troppo evidente al polso. Significa che mostra poca cura di sé, che non ha grandi pretese, ne nei suoi confronti, ne nei confronti del paziente. Non ama il suo lavoro e quindi sarà facile incontrare le sue scarse aspettative.. Ma se l’esaminatore esprime sé stesso, se rivela la propria identità e lo fa in modo aperto, allora l’esaminato ha un problema. In questo caso si ha a che fare con un uomo sicuro di sé e del lavoro che fa. Un uomo che non lascerà nulla al caso e che quindi andrà fino in fondo. In questo caso, è fondamentale partire col piede giusto, sicuri e lucidi fin dalle prime battute. Se l’esaminatore porta i capelli lunghi, collane, vestiti e sciarpe provenienti dai mercatini del terzo mondo, vuol dire che non si sente a suo agio a lavorare in quel posto, e che vorrebbe invece fare altro… magari il guaritore o il missionario. In questo caso siete salvi. Così come lo siete se indossa occhiali di marca e vestiti costosi; indicano che fa il suo lavoro senza entusiasmo e che forse pensa solo alla sceneggiatura.
Ciò che l’esaminatore indossa dice ciò che vuole mostrare, e ciò che mostra dice ciò che vuole nascondere.
Ne sono fortemente convinto.
Lo stesso vale per l’esaminato. È un gioco di ruolo. Dove la posta in palio è molto, molto alta.
Questo è quanto non insegnano alla facoltà di psicologia. Questo è quanto si impara osservando le persone. Provate a farlo per un tempo sufficientemente lungo. Così lungo che poi farete fatica ad immaginarvi le persone diverse da oggetti. Non sarà difficile. È quello che spesso facciamo. Trasformiamo le persone in oggetti e gli oggetti in persone. E un processo quasi continuo. Usare è la prima parola che mi viene in mente.
La combinazione più pericolosa, quella da cui stare in guardia, è giovane e annoiato, oppure giovane e permaloso. Si riconoscono alle feste e ai raduni sociali. Magari sono anche affascinanti e hanno un’automobile costosa.
Magari hanno il mondo ai loro piedi e ostentano una sicurezza maggiore di quella che dovrebbe avere. Sono quelli che parlano di sindromi, condizioni, devianze e disordini, e amano parlare, parlare, parlare. Parlano di sé e quando parlano di altri lo fanno per mettere in mostra la propria identità. E’ un po’ come quando vi trovate al bancone di un bar con un ubriaco. Vi verserà da bere come pretesto per riempire il proprio bicchiere. E’ una falsa generosità. Ricordo una frase… Chiediamo agli altri come è andato il loro fine settimana solo per raccontare il nostro. Beh, lo spirito è quello. Questi giovanotti si esprimono a mezze frasi, con il sorrisino di chi la sa lunga, osservano l’interlocutore che prova ad inserirsi nelle pause, e continuano… a parlare. Egocentrici?
Se durante un colloquio fate un’osservazione del tipo… “Capisce quello che voglio dire?”, vi risponderanno: “No, perché non me lo dice lei?”. E cercano una storia da raccontare. Non glielo insegnano a psicologia. Lo hanno nel sangue.
Niente spaventa un giovane esaminatore quando un paziente gli dice di avere solo qualche problema di infelicità. Usate spesso questa frase. Sono infelice perché… mi ha lasciato la fidanzata. Mi è morto il gatto. Ho perso il lavoro. Sapete cosa risponderà? “Fate più esercizio all’aria aperta. Andate in qualche club. Compratevi un altro gatto. Cercate un lavoro migliore”. Se gli dite che avete preso a calci un distributore automatico che vi ha mangiato le monete, vi diagnosticano una schizofrenia con disordine della personalità bipolare acuto o un complesso di Edipo. Non dite mai che avete dato sfogo alla vostra aggressività.
Queste sono i rischi che correte casomai vi imbattiate in una situazione come quella sopra descritta.
Perciò, dite loro che non dormite bene. Che pensate sempre ad un vecchio amore. Non dite che va tutto bene. State sempre sul banale e sperate che tutto vada per il meglio. E ditelo con la convinzione che sia vero. Ci cascheranno.
Se l’esaminatore è anziano, guardate se cerca di nascondere la propria età. È un sintomo di debolezza. E guardate se porta la fede. L’età e il matrimonio sono importanti. Passati i quaranta essere single li rode. C’è il caso che siano senza figli e che restino in questa condizione. È probabile che le risposte che date vadano a stuzzicare qualche vecchia ferita, nel qual caso vi ringrazieranno di avergliela riaperta mandandovi a fondo. Non avranno pace finché non vi vedranno soffrire. Guardate se si truccano troppo, se si tingono i capelli, se si pettinano in modo elaborato, se hanno la parrucca. Se la risposta è affermativa fate attenzione a non urtarli su questi punti. Gli occhiali vanno bene, gli occhiali scuri no. Nascondono le rughe, o semplicemente si nascondono. E’ probabile che siano a disagio e che l’esame sia più loro che vostro.
Non dimenticate mai che le risposte bianco o nero vengono filtrate attraverso le paturnie mattutine dell’esaminatore, il suo odio per la vita, per i genitori, per gli uomini o le donne, per la moglie che non ama, o per il marito che tradisce, per i figli che non crescono, per il grasso che aumenta. O tutto questo insieme. Quindi, attenzione a quando venite esaminati. La mattina va male. A meno che sia prima di pranzo. In questo caso va bene. Il pomeriggio è male. La sera è bene. Lunedì va molto male. Venerdì invece è un ottimo giorno. Dalle sue orecchie al suo taccuino, le vostre risposte sono filtrate dall’esperienza e dall’umore dell’esaminatore, dai suoi traumi infantile e dal bagaglio di rifiuti che ha ricevuto e che lo hanno spinto verso psicologia o psichiatria o…
Credo che sia abbastanza.
Ho già fatto abbastanza confusione.
Il problema è il momento in cui aprite la porta, tornate in strada e lasciate alle spalle l’ospedale. Significa che siete stati bravi. Davvero bravi. Magari fuori piove. Pioggia gelata. Magari è sera e c’è poca gente in giro. Il silenzio potrebbe essere la cosa più strana di tutte. La pioggia filtra attraverso i vostri vestiti e scivola giù per il collo. Osservate la pioggia che lustra i marciapiedi. E notate che tutto è desolato là fuori. Che non è quello che vi sareste aspettati. Desolato. E bagnato. E freddo.
E poi magari tornando verso casa vi ritrovate a fissare il vostro profilo nella vetrina di un negozio.
Vi fermate. La pioggia ancora cade, ma ormai non è più un problema.
Anche il vostro corpo vi guarda. Pallido e squadrato. E iniziate a odiarlo. Lo odiate perché è lui, perché è il vostro. Perché è lo stesso corpo che incontrate ogni notte quando vi togliete i vestiti. Lo odiate per la sua debolezza. Per essere così insignificante. Lo odiate perché ha bisogno di cose. Perché deve essere nutrito e vestito e mantenuto in modi che voi non potete e non volete controllare. Lo odiate perché è il vostro e non potete scappare da lui. Lo odiate perché sotto la pelle vedete le vostre ossa. Perché vedete quello che non vorreste vedere. Lo odiate perché è stupido e disobbediente. E in quel momento esatto lo odiate perché vi ha messo in imbarazzo.
Vi guardate nella vetrina e la pelle vi sembra verde. Le orbite degli occhi vi sembrano enormi, come se la faccia vi stesse affondando dentro il cranio.
Vi guardate i capelli. In certi punti sono incollati e sembrano unti. Vi guardate gli occhi. Mezzi chiusi per la stanchezza. Vi sentiti mostruosi: tristi, inutili e mostruosi. Magari vorreste piangere. Ma non lo fate. Non servirebbe. Cercate di immaginarvi da vecchi, cercate di immaginare se lo diventerete. Non riuscite a pensare a nulla di particolare da aspettarvi. Non riuscite a pensare a niente per cui non vi sentiate in colpa. E magari vi sentite in colpa proprio perché vi rendete conto che siete lì in piedi, nel bel mezzo di una strada, di fronte ad un negozio chiuso, a fissare le proprie ossa. Incrociate le braccia e guardate il vostro volto riflesso.
Vi prendete ancora qualche secondo per studiare il vostro viso. Un’osservazione diligente vi ha garantito tutto quello che avevate bisogno di sapere.
È in quel momento che provate una forma di dolore immediato. Una pura e onesta forma di dolore. È la sensazione giusta.
Adesso vi sentite meglio.

Ho solo più tempo del solito per dare sfogo all’immaginazione.

13.2.07

LO SPECCHIO DI SARA

Ieri sera mi ha chiamato Sara. Una sorpresa.
Sara è una vecchia compagna di università. Vecchia perché ormai è da qualche anno che ci conosciamo. Ci sentiamo però raramente. Una volta ogni tre o quattro mesi. Questa estate le avevo regalato un viaggio in Spagna. A lei e al suo fidanzato. Che ora a quanto pare è troppo ex per definirlo tale. L’ultima volta che ho visto Sara è stato qualche settimana fa, in un locale jazz di Parma.
È una bella ragazza, ma le manca tutto quello che piace a me. Le piace prendermi in giro e ovviamente non ne ho a male. Io faccio lo stesso con lei.
Ieri sera mi ha chiamato per…
Sara non è cattiva.
E’ però quel tipo di ragazza che quando entra in un negozio di vestiti non compra la cosa che più le piace o che può solo permettersi. Sara compra la cosa che pensa faccia incazzare le sue amiche e le altre ragazze che incontra nei locali, per strada o in università. In fatto di moda e stile è abbastanza sofisticata. In realtà io le ho sempre detto che non sa neppure cosa le piace, sa solo quello che farà più effetto. Compra una maglietta, dei jeans, un paio di stivaletti o una giacca solo perché sa che faranno pensare a chi la guarda “ Quanto le sta bene”. E lo fa perché le piace essere sempre in prima fila. E lo fa perché le piace dare sui nervi alle altre ragazze. Questa è Sara. Posso raccontarlo perché so che lei non se la prende.
Ieri mi parlava dei suoi affari di cuore e mi ha raccontato il motivo per cui ha deciso che un uomo in casa sua sarebbe utile solamente per alcuni pochi buoni motivi.
Un uomo le servirebbe:
1. per buttare fuori i ragni veramente grossi
2. per svitare i barattoli e/o le bottiglie particolarmente tenaci
3. per allontanare i testimoni di Geova (lei dice di non esserne capace, non riesce ad essere scortese)
4. per montare i mobili IKEA, gli unici che per ora può permettersi
Per tutto il resto mi ha assicurato che un uomo può fare benissimo il suo mestiere fuori da casa sua.
Questa è Sara. O perlomeno è anche questo.
Mi ha chiesto se l’avevo chiamata. Non la pianista. Beh, più o meno. Non come intendeva lei, ovviamente. Mi dice che ogni tanto dovremmo passare di nuovo una serata insieme e che dovrei imparare a dire più spesso ad alta voce le frasi che ho in testa.
A volte Sara ha ragione. Altre volte non sa quello di cui parla.

11.2.07

ANDRA' COME DEVE ANDARE.

Tra noi studenti una domanda frequente prima degli esami era: Come credi che vada?
Avevo preso l’abitudine di rispondere: Andrà come deve andare. Quindi, sicuramente bene.
Un tempo ero convinto che nel momento in cui mi rendevo conto che una cosa era possibile, la facevo accadere. La rendevo inevitabile. Nel bene e nel male. E così succedeva. Garantito.
Tempo dopo le cose erano un poco cambiate. Avevo meno fiducia. Di me prima che degli altri.
Quello che mi attendeva era un milione di buone ragioni per non vivere la mia vita. Per negare le mie possibilità di successo. Per non fare quello che avrei voluto fare. Per scaricare la colpa su altri e altro. Avrei potuto combattere contro tutto questo, contro tutto ciò che mi frustrava. Oppure avrei potuto fare davvero altro, smettere di vivere in reazione alle circostanze e iniziare a vivere in vista di quel che volevo essere. Ci sto provando da un po’ di tempo, eppure non sempre è facile modellare quello che si vorrebbe essere con quello che si vuole che sia. Si parla sempre di condivisione.
Quello che mi attende è un milione di nuove ragioni per andare avanti ed oggi il mio sforzo è quello di fingere di non essere il peggiore nemico di me stesso. Lo faccio per me e per gli altri.

6.2.07

LEFT OF THE MIDDLE



RICOMINCIO DA CAPO.


I asked a thief to steal me a peach:

he turned up his eyes.

i ask'd a lithe lady to lie her down:

holy and meek, she cries.


As soon as i went

an angel came:

he wink'd at the thief,

and smil'd at the dame;


and without one word said

had a peach from the tree,

and still as a maid

enjoy'd the lady.


W. Blake

5.2.07

Il senno di poi... il racconto continua.

Già ho scritto del senno di poi e pensavo di aver trattato la questione in modo abbastanza chiaro. Forse mi sbagliavo, le sorprese sono sempre dietro l’angolo. Il senno di poi lascia spazio all’interpretazione, più o meno personale, di quanto abbiamo vissuto. E lo fa in tempo reale.
Questo è parte, la più buona, di quello che ho scritto nel tardo pomeriggio di ieri.

Ho perso il mio cielo per qualcosa di grave. Non lo si perde per una bazzecola.
Al posto della volta celeste ho l’impressione di avere ricevuto un’immensa cortina bianco-giallina, come acqua sporca di risciacquo. Anche il sole non mi bacia con il consueto ardore dorato. Non riesce a squarciare quella patina oleosa. La luce arriva velata, grigia, malaticcia, come se al posto di un astro splendente in alto vi fosse un gigantesco neon. Cerco di immaginare che effetto farebbe un cielo azzurro, limpido. Non ci riesco.
Eppure non c’è nulla di triste. Forse non mi rendo conto, non abbastanza, di quello che non ho.
Forse mi ricordo il giorno, lontano, in cui il cielo era blu. O forse, più semplicemente, ho smesso di guardarlo. Non c’è tempo da perdere in sciocchezze visionarie. Bisogna correre perché non c’è tempo e per i sogni non c’è spazio. Ho già perso abbastanza.

Quanto segue è quello che invece ho scritto nella tarda serata di ieri.

La musica mi ha riempito.
Sono sempre pieno di qualcosa. Forse è per questo che non ho mai avuto paura di rimanere solo. C’è sempre il mio ripieno a farmi compagnia. Ultimamente però sto imparando che anche il ripieno ha la sua importanza.
Parlavo della musica. Ne ho nelle orecchie, nel naso, negli occhi, nella gola, sul corpo. Perfino nei capelli ne è rimasta un po’, e sotto le unghie. Ho cercato di afferrarla, non volevo perderla.
Dapprima i violini: avanzano spavaldi, si sfidano a duello. Le arpe occhieggiano maliziose da dietro gli alberi. I fiati cinguettano, allegri ma sobri, mentre i contrabbassi borbottano. In tutto questo parco gli unici che non riesco ad inquadrare sono i violoncelli. Cosa fanno? Cospirano? Sono misteriosi, i violoncelli. Ma mi piacciono. Sono i violoncelli quel mistero che rende questo giardino così bello, allegro, agitato e appassionato.
Un sorriso euforico aleggia sulle mie labbra e mi accompagna fin nel morbido tiepido del mio letto.

Non credo ci sia bisogno di altre spiegazioni.

Il senno di poi ha spesso un nome. Non ho bisogno di cercarlo.

4.2.07

Tempo di Ringraziamenti...

Cercavo le parole più adatte per ringraziare tutti coloro che hanno contribuito alla realizzazione di questa iniziativa, ma in questo caso, come in molti altri, mi trovo davvero in difficoltà.
Vorrei tanto riuscire ad affidare a questa pagina i miei pensieri, ma tutto è così sfocato che mi limiterò a lasciarvi con poche sentite e sincere parole.

Grazie. Grazie per quello che avete regalato a me e chi vi ha potuto seguire.
Grazie. Grazie per quello che avete fatto.
Grazie. Grazie per esservi fidati.
Grazie. Grazie. Grazie.

Grazie al gruppo del Classico.

Grazie a Dario Brevi.
Grazie a Beatrice Giubellini, Sara Mantovani, Chiara Caviggia, Lorenza De Rosa, Luana Vollero, Erika Zappa, Cristina Mazzetta, Francesca Romano e Veronica Bignetti.

Grazie al gruppo di Hip Hop.

Grazie a Simona Bazzoli.
Grazie a Dolores Parisi, Ermanno Barnava, Alessandro Fioletti, Cristina Rosa, Michela Magri, Erika Zanoni, Greta Visini e Alessandra Zagarrì.

Grazie al gruppo di Modern Jazz.

Grazie a Valentina Benedetti.
Grazie a Fabio Crestale, Roberta Rizzini, Annalisa Parmeggiani, Ellena De Paolis, Nicoletta Morone, Annalisa Colossi, Alessandro Conti, Paola Lauro, Rosy La Vecchia e Paola Ghidini.


Grazie all'Agenzia della Danza. A Mauro. A Raffaele. A Danila. Al Service.
Grazie al PalaBrescia. Per la collaborazione.
Grazie agli Studios. Grazie a Forza e Costanza, a Nadia ed Isabelle. Grazie all'Ass. Olimpia, a Stefania. Per l'ospitalità.
Grazie a Des Art, a Desirée e Marina. Per il tempo.
Grazie a tutte quelle scuole che hanno partecipato allo stage e alla disponibilità degli insegnanti.
Grazie ai genitori di tutti gli allievi. Alla loro pazienza.
Grazie ad Andrea e Paola.
Grazie a Mauro ed Iride.
Grazie davvero a tutti coloro che mi hanno dato una mano.
Grazie agli amici, che mi hanno sopportato e hanno sopportato tutto questo.
Grazie infine a Chiara. Per tutto.

MP

DAL GIORNALE DI BRESCIA - Cultura e Spettacoli

Applausi al PalaBrescia per lo spettacolo dell'étoile ed anche per i ragazzi bresciani selezionati dopo uno stage.

CON PAGANINI ARDE IL FUOCO DEL TANGO

di Paola Cappelli

C'era fermento ieri in un gremitissimo (1.600 spettatori) PalaBrescia per lo spettacolo di Raffaele Paganini "Da Tango a Sirtaki, Omaggio a Zorba", soprattutto perchè era attesissima l'esibizione dei 27 ragazzi bresciani che hanno dato vita alla Piccola Compagnia (selezionati a inizio gennaio tramite uno stage tenutosi agli Studios), che per la prima volta si sono esibiti, guidati da tre coreografi bresciani (Dario Brevi per Classico, Simona Bazzoli per Hip Hop e Valentina Benedetti per Modern Jazz), nella speranza di poter realizzare il sogno di danzare.
La Piccola Compagnia è un'iniziativa itinerante che ha in Brescia il suo punto di partenza e che accompagnerà in tutte le date la tournée di Paganini. La prima sensazione che si percepiva era l avoglia di esibirsi di questi ragazzi che, oltre ad avere una tecnica che promette bene, dai movimenti ben definiti e sicuri, hanno mostrato di essere in grado di dedicarsi alla danza col massimo impegno. Il tema comune alle tre coreografie è stata la musica di Bach con l'interessante accostamento ai movimenti dell'Hip Hop che hanno saputo interpretare la forza e l'energia di questo grande compositore.
Con il tango di Paganini entrano in scena le passioni narrate attraverso la sua danza di grande carisma e coinvolgimento scenico. Lo spettacolo, articolato in due momenti, ripercorre il viaggio interiore di un uomo alle soglie del matrimonio, i suoi dubbi e le sue paure. Il tango, assolutamente sensuale, di grande forza ed eleganza, grazie anche ad un corpo di ballo, La Compagnia Nazionale Raffaele Paganini, tecnicamente molto preparata e di forte presenza scenica, porta in scena la fase dell'amore constrastato, della malinconia del distacco. Così accade nell'intenso duetto, che si svolge sotto l'immagine d'una rosa rossa, in cui Paganini vive con la sua donna una crudele, quanto drammatica danza di separazione.
Il sirtaki, dalle atmosfere più popolari e pittoresche, ma di grande forza, coinvolgimento e vitalità musicale, rappresenta il momento culminante della presa di coscienza del protagonista, che lo porterà alla decisione di riprendere il viaggio verso casa per tornare dalla donna che ha lasciato, più ricco della consapevolezza che le radici di un uomo non possono essere strappate.
Di notevole valore e ben articolate le coreografie di Martelletta, originale nei passi e nell'interpretazione delle atmosfare, in grado di regalare un'intensa armonia tra passato e presente, tradizione e modernità, interpretando l'anima delle musiche e traducendola in movimenti di forte originalità ed intensità. Un affettuosissimo pubblico ha salutato con calore, tenendo il tempo, i bis regalati alla fine.

CRISTINA ROSA - DanzAmica



HIP HOP

ALESSANDRO FIOLETTI - DanzAmica





HIP HOP

VERONICA BIGNETTI - Ass. Olimpia



CLASSICO

GRETA VISINI - DanzAmica


HIP HOP

ANNALISA COLOSSI - Ballet School


MODERN JAZZ

ALESSANDRO CONTI - Ass. Olimpia


MODERN JAZZ

ELLENA DE PAOLIS - Ass. Olimpia



MODERN JAZZ

2.2.07

ERMANNO BARNABA - CSC ANYMORE



ERMANNO BARNABA

HIP HOP

HAI UN PRIMO RICORDO?


RISALE AD UNA DECINA DI ANNI FA... TANTA GENTE CHE BALLA IN UN PARCO ED IO CHE ALLIBITO MI LASCIO COINVOLGERE DA QUELLA ATMOSFERA.

COSA SIGNIFICA PER TE DANZARE?

DANZARE... LA DANZA E' SENSUALITA', E' PASSIONE, E' CUORE.

COSA HAI PROVATO QUANDO HAI SAPUTO DI FAR PARTE DELLA PICCOLA COMPAGNIA?

LIBERO DI SOGNARE...

E COSA TI ASPETTI DA TUTTO QUESTO?

TUTTO... E NIENTE. MI ASPETTO TANTA DANZA, PROFESIONNALITA' E DIVERTIMENTO... MI ASPETTO DI FARE NUOVE CONOSCENZE E POI CHISSA'...

HAI UN SOGNO NEL CASSETTO?

SI', MA NON LO RACCONTERO' ORA... SCARAMANZIA.

NICOLETTA MORONE - Ass. En Dehors



NICOLETTA MORONE

MODERN JAZZ

INIZIAMO DALLA SCUOLA?


STUDIO ALL'ASS. CULTURALE PER LA DANZA EN DEHORS... DI BOVEZZO.

HAI UN RICORDO, UNO DEI PIU' REMOTI, LEGATI ALLA TUA ESPERIENZA NEL MONDO DELLA DANZA?

SI', AVEVO TRE ANNI. GUARDAVO LA TV E RICORDO DI AVER VISTO UN BALLETTO CLASSICO. CREDO FOSSE IL LAGO DEI CIGNI. RICORDO CHE FU ALLORA CHE DECISI CHE IL MIO DESTINO ERA BALLARE.

IMMAGINO QUINDI CHE IL TUO SOGNO NEL CASSETTO SIA PROPRIO QUESTO...

BRAVO, IL MIO SOGNO E' DIVENTARE UNA BALLERINA.

COSA HAI PROVATO QUANDO HAI SAPUTO DI FAR PARTE DELLA PICCOLA COMPAGNIA?

E' STATA DAVVERO UNA SORPRESA... E OVVIAMENTE NE ERO FELICISSIMA. COME LO SONO DI LAVORARE CON RAGAZZI E RAGAZZE BRAVISSIMI. SONO CONTENTA ANCHE PERCHE' HO DATO UNA GRANDE SODDISFAZIONE ALLE MIE INSEGNANTI E OVVIAMENTE ALLA MIA FAMIGLIA.

COSA TI ASPETTI DA QUESTA AVVENTURA?

SPERO CHE NON FINISCA QUA, CHE QUESTA INIZIATIVA POSSA ANDARE AVANTI E PORTARCI IN QUALCHE MODO LONTANO.

SE POTESSI SCEGLIERE UNO SPETTACOLO?

SAREI ROMEO E GIULIETTA.

1.2.07

ROSY LA VECCHIA - Ass.Olimpia



ROSY LA VECCHIA

MODERN JAZZ

INIZIAMO DAL TUO SOGNO NEL CASSETTO...


BEH, PREFERIREI NON LASCIAR NULLA RINCHIUSO NEL CASSETTO, I SOGNI VANNO REALIZZATI, PERLOMENO BISOGNA PROVARCI. IO CERCO DI FARLO COGLIENDO OCCASIONI COME QUESTA.

QUINDI, COSA TI ASPETTI DA TUTTO QUESTO?

PER ADESSO VOGLIO SOLO VIVERLA... VORREI SALIRE SU QUEL PALCO PER BALLARE, BALLARE PER ME E PER TRASMETTERE QUALCOSA DI SPECIALE AL PUBBLICO.

TOGLIMI UNA CURIOSITA', SE FOSSI UNA MUSICA SARESTI...

SAREI... GONNA MAKE YOU SWEAT!

DOLORES PARISI - Accademia di Milano



DOLORES PARISI

HIP HOP

CIAO DOLORES, RACCONTAMI DEL TUO PRIMO RICORDO LEGATO ALLA DANZA.


RICORDO MIA MAMMA, RICORDA CHE MI ACCOMPAGNAVA ALLA MIA PRIMA LEZIONE...AVEVO 5 ANNI.

DI ANNI NE SONO PASSATI DA ALLORA PARECCHI, OGGI CHE SIGNIFICATO HA PER TE LA DANZA?

E' ARTE, E' DESIDERIO, E' LA MIA VITA.

COSA HAI PROVATO QUANDO HAI SAPUTO DI FAR PARTE DELLA PICCOLA COMPAGNIA E COSA TI ASPETTI DA QUESTA ESPERIENZA?

NON CI CREDEVO, NON CREDEVO DI POTER ESSERE SCELTA. POI HO INIZIATO A CAPIRE. IN EFFETTI E' SUCCESSO TUTTO NEL MOMENTO GIUSTO; AVEVO BISOGNO DI TROVARE NUOVI STIMOLI ED ECCOMI QUA, CON TANTA VOGLIA DI FARE BENE E DIMOSTRARE IL MIO TALENTO. MI ASPETTO DI IMPARARE QUALCOSA DI NUOVO, UN'ESPERIENZA DIVERSA. SARA' UN RICORDO BELLISSIMO, CHE SPERO OVVIAMENTE POSSA RIPETERSI.

HAI UN SOGNO NEL CASSETTO?

QUELLO DI VIVERE IN UNA COMPAGNIA DI HIP HOP O DI FAR PARTE DI UN MUSICAL. SOGNO DI ESSERE SERENA E FARE DI CIO' CHE AMO IL MIO LAVORO.

SE FOSSI UNO SPETTACOLO?

SAREI UNO SPETTACOLO DEI MOMIX.